I diciotto sopravvissuti alle decimazioni, a seguito dell’andata in liquidazione dell’Ente Fiera del Mare genovese, hanno comunque messo insieme il calendario
di una ventina di eventi per il 2017, corrispondenti alla copertura di un 250/260 giornate espositive. Un carnet non lontano dalla cifra aurea di 300, corrispondente al livello ottimale di plafonatura per un quartiere fieristico. Sicché, mentre tutto crolla attorno, c’è chi tenta disperatamente di tenere aperto un sentiero di sopravvivenza, che presupporrebbe la concentrazione delle attività tra il padiglione B e il Palasport. Con persino il raggiungimento di un lieve utile. Anche se – parlandoci chiaro (e senza voler sminuire l’impegno di nessuno) – trattasi di manifestazioni in tono minore, che posizionano la struttura di piazzale Kennedy a livello di “fiera di Sant’Agata”.
Nel frattempo, apprendendo queste notizie, torna alla mente un western del 1951 con Gregory Peck, dal titolo icastico: “L’avamposto degli uomini perduti”; ossia il plot di un manipolo di giacche blu che difende a prezzo della vita il presidio che gli è stato assegnato, contro torme di feroci pellerosse Apache.
Questa resistenza può far riflettere la città e – soprattutto – chi di dovere sull’insensatezza o meno di sbaraccare un’iniziativa che procede da mezzo secolo e di demolire strutture realizzate grazie al pubblico investimento. E perché, poi?
Un po’ lo si è capito: l’area è appetibile alquanto. Anche se i disegni per appropriarsene risultano abbastanza “in grembo a Giove”, dunque più un’operazione mediatica che un vero progetto destinato all’implementazione. E che si tratti del solito balletto della politica locale ne può dare conferma la palese bizzarria di indire un concorso internazionale di idee sull’idea di Renzo Piano (leggasi, Blue Print), in cui l’idea prescelta verrà sancita dall’ideatore dell’idea di partenza: lo stesso architetto Renzo Piano. L’architettura virata a matrioska, magari per sanare il vulnus iniziale della vicenda: l’idea del Blue Print fatta propria dalle istituzioni senza un previo concorso internazionale.
Un illusionismo – diciamo anche questo – reso possibile dalla nullaggine imprenditorial-manageriale delle dirigenze che si sono succedute negli anni alla guida del business fieristico, intente soltanto a incassare emolumenti o gettoni di presenza. E covare uova di pietra.
Eppure, tornando al tema, la resistenza dell’avamposto in Expo meriterebbe una discussione da parte della città su quello che sembra giusto fare al riguardo. Soprattutto una presa di posizione motivata da parte dei decisori. Che ci dicano se e come sia meglio “piantarla lì”, non lasciando che sussistano crudeli illusioni in chi lavora per un esito diverso: tornare a vivere. Oppure, se non si intende dare il colpo finale sulle residue ambizioni di una Genova presente nel business espositivo (seppure con ambizioni contenute), assicurare all’Ente ciò che è sempre mancato: una leadership energetica, in grado di acquisire spazi operativi nel settore.