I giornali della domenica, colmi di analisi politica e poveri di informazioni sul mondo reale, non possono fare a meno di registrare una notizia che racchiude in sé tutte le altre:

siamo alla fine della globalizzazione.
Sarà vero? In effetti l’interconnessione dell’intero pianeta, con relativi effetti di interdipendenza, è un processo in marcia dal tempo delle prime scoperte d’oltremare, a partire dal XIII secolo (quando i pescatori portoghesi inseguendo i banchi di aringhe scoprirono le isole Azzorre). Più corretto sarebbe dire che a termine sta giungendo un particolare tipo di globalizzazione, quella finanziaria. Lo sancisce la rinnovata presidenza degli Stati Uniti in procinto di entrare nella Casa Bianca. Cioè il punto da cui era stata messa in moto la finanziarizzazione del mondo.
Ce lo ha spiegato molto bene un grande sociologo che insegna a Berkeley: “l’amministrazione Clinton fu il vero agente di globalizzazione politica, soprattutto sotto la guida di Robert Rubin [sottosegretario al Tesoro del governo americano fra il 1991 e il 1995], ex presidente di Goldman & Sachs e uomo di Wall Street. Certamente Clinton costruì sulle basi di Reagan, ma impresse ulteriore impulso all’intero progetto, attribuendo somma priorità all’apertura dei mercati dei beni, dei servizi, dei capitali. In uno straordinario servizio, il New York Times documentò nel 1999 lo sforzo incondizionato in questa direzione della squadra Clinton, volto a mettere sotto pressione diretta i governi del mondo. Attraverso disposizioni al Fondo Monetario Internazionale di portare avanti questa strategia con il massimo rigore! (Manuel Castells, La nascita della società in rete, Bocconi Editore, Milano 2001 pag. 151).
Ad altra sede stilare il bilancio consuntivo dei processi avviati venti anni fa. Ciò che ora ci interessa e riguarda sono i possibili effetti del cambio di tendenza.
Il primo è il viaggio di ritorno da una dimensione eminentemente virtuale dell’economia (la creazione di denaro a mezzo denaro) a una reale, materiale. Come aveva già iniziato a promuovere l’amministrazione Obama, valorizzando la creazione di lavoro incentivando la localizzazione di imprese sul territorio.
Tendenza che – ove si imponesse a livello planetario (e le ricette politiche americane hanno sempre un impatto fortissimo anche sul Vecchio Continente) – dovrebbe comportare pure dalle nostre parti un ritorno a parole d’ordine dimenticate; in primo luogo la politica industriale.
Ma c’è un secondo trend politico che si prospetta come possibile: quello di un ritorno al protezionismo americano. Anche in questo caso non si intende commentare la logica di tali tentazioni. Si osserva soltanto che queste possibili scelte avrebbero impatti, come una sorta di maremoto, tanto sui flussi logistici quanto sulle opportunità esportative del nostro Paese. Non meno che sulla Magna (e spesso tracotante) Germania, che basa le proprie fortune industriali proprio sull’export. Queste mutazioni di scenario determineranno la disgregazione definitiva della costruzione europea? Oppure saranno una salutare doccia fredda sulle pulsioni centrifughe, rese ancora più suicide da un contesto in cui la resistenza può essere realizzata solo a livello continentale, con un ritorno alla generosità cooperativa?
Sia come sia, tempi complicati ci attendono.