Vincenzo Boccia, presidente nazionale di Confindustria, intervenendo al convegno autunnale dei Giovani Imprenditori che si tiene tradizionalmente a Capri,
ha lodato la politica governativa; in quanto– a suo dire – privilegia “i fattori” e non “i settori”.
Cosa significa? Semplicemente che non opera alcuna discriminazione, spargendo i propri provvedimenti a tuttocampo (costo del lavoro, politiche fiscali e del credito, interventi formativi, ecc.). Detto così sembrerebbe il massimo dell’equità e della trasparenza. Con il piccolo problema che – sempre così – viene meno la prima condizione per cui una politica diventa tale: operare scelte. Per di più si offre alle rappresentanze degli interessi l’opportunità di mostrare la propria faccia peggiore: quella da lobbisti alla caccia di erogazioni, possibilmente “a pioggia”.
È normale che un professionista dell’associazionismo quale il tipografo Boccia, invecchiato nei corridoi di viale dell’Astronomia all’EUR (sede dell’organizzazione degli industriali), apprezzi l’opportunità negoziale corporativa che discende dalla politica dei fattori. Resta fermo il fatto che da tale opzione stenta a palesarsi un barlume di spinta allo sviluppo. Visto che – in base alla fisiologia industriale certificata da pluridecennali esempi – sono i settori e i loro “campioni” a fare da traino all’intero sistema produttivo. Da quando gli abitanti delle secentesche Provincie Unite, subentrando a Genova, conquistavano ad Amsterdam la palma di centro finanziario del mondo occidentale, grazie ai profitti accumulati con le innovazioni marittime applicate all’industria alimentare (il trattamento delle aringhe durante la navigazione dei pescherecci) fino alla microelettronica giapponese di consumo, con cui il Sol Levante andò alla conquista dei mercati mondiali negli anni Ottanta; alle scelte in materia di trasporto pubblico fatte dalla Francia nel dopoguerra.
Del resto abbiamo dimenticato che il Miracolo Economico italiano fu trainato da prodotti (la Seicento FIAT, la Divisumma Olivetti, il Moplen Montedison, la Vespa Piaggio)? Non ci ricordiamo più l’epopea genovese nata dalla scelta di potenziare la siderurgia a filo di costa con il Piano Sinigaglia?
Tutte scelte – nazionali come internazionali – che confermano la funzione generativa di una politica pubblica, capace di innestare sviluppo complessivo concentrando risorse in uno specifico punto di crescita.
Un problema che non sembra scaldare il cuore a questa Confindustria.
Non a caso l’ex premier Giuliano Amato – il quale nel 1992 lanciò un piano di privatizzazioni per 100mila miliardi di lire (ENI, IRI e banche) – è reduce or ora dall’aver rilasciato dichiarazioni che non confortano “il continuismo confindustriale”: «allora [nel 1992] gettammo le basi per una politica economica e industriale. Le cose sono andate diversamente da come volevamo, tante le occasioni mancate. La colpa è del capitalismo privato, che ha mancato tutti gli appuntamenti con la storia. Qualcuno ha resistito, e l’Italia ha dei campioni nazionali. Ma tanti, invece di investire in tecnologia, hanno preferito godersi lo yacht a Portofino».
Insomma, gli “aiutini” all’insegna del laissez-faire non bastano, ci vogliono precisi indirizzi. E i conseguenti accompagnamenti.