Il bravo Massimo Minella riferisce che nella sua breve visita genovese il premier Renzi avrebbe chiesto come mai il porto di Rotterdam valga da solo più di tutti i porti italiani messi insieme.

Forse sarebbe stato sufficiente rispondergli che il Mediterraneo non è l’Oceano Atlantico o che la concentrazione industriale del Nord Ovest italiano è un tantinello più modesta rispetto al territorio retrostante il Northern Range; il sistema dei porti del nord da Le Havre ad Amburgo. Ossia il complesso che movimenta una quarantina di milioni di teus all’anno per la posizione geografica mixata con capacità produttiva dell’area, dove l’espressione società industriale mantiene ancora un senso. Piuttosto sarebbe molto più alla portata delle nostre forze domandarsi come mai i porti del nord riescano a fare lobby a Bruxelles con un’efficacia pari all’insignificanza di quelli mediterranei. Forse ci starebbe una tiratina ai nostri rappresentanti nel parlamento europeo, spesso dati per non pervenuti; magari perché facciano massa critica stipulando alleanze in controtendenza con i colleghi sud-europei.
Nel frattempo si consiglierebbe che le narrazioni sulla nostra portualità uscissero dallo schema della rana che volendosi fare bue si gonfiò sino a scoppiare.
Invece di pontificare sulle “magnifiche sorti e progressive” dietro l’angolo, magari assicurate da una riforma della portualità che si limita a redistribuire pure e semplici carte di potere autoreferenziale, si inizierebbe così parlare di cose serie. Ad esempio quali politiche industriali potrebbero rivitalizzare l’anemico sistema industriale italiano; ad esempio quali specializzazioni anche di nicchia potrebbero rilanciare l’offerta dei nostri porti. A partire dal cosiddetto “primo porto d’Italia” – Genova – da tempo in grave carenza di spinta propulsiva.
Uno che se ne intendeva come Paride Batini, storico leader della CULMV, era solito dire che “il porto di Rotterdam è un supermercato, quello di Genova una boutique”.