Come da tempo segnala Liguriaeconomy, va avvicinandosi il momento drammatico in cui scatteranno i tagli al personale in due aziende liguri di grande prestigio e tradizione:
Piaggio Aerospace ed Ericsson. Entrambe – guarda caso – controllate dal capitale straniero.
Fermo restando lo scoramento per l’ennesimo colpo inferto al nostro sistema industriale e confermando la piena solidarietà ai lavoratori su cui pende il terribile destino dell’espulsione dal processo produttivo, varrebbe la pena di trarre dalle vicende dolorose qualche utile insegnamento per il futuro.
Prima lezione: le proteste odierne (come nel passato, prossimo e non) nei confronti di strategie aziendali al ribasso vengono sistematicamente messe in campo quando ormai le decisioni da parte dei “quartieri generali” delle imprese sono state assunte e le conseguenze diventate ineluttabili.
Dunque tali proteste non risultano altro che pura teatralità a posteriori; la messa in scena da parte delle istituzioni e delle rappresentanze sindacali di una recita per apparire quello che non sono state: soggetti capaci di vigilare su quanto avviene sul territorio e intervenire per tempo. In anticipo, non fuori tempo massimo. A conferma della sensazione che un preoccupante tasso di burocratizzazione e di autoreferenzialità abbia trasformato queste istituzioni e questi sindacati in spettatori assenteisti e, sostanzialmente, indifferenti. Convitati di pietra.
Seconda lezione: le due aziende in questione, proprio per l’azionariato che le controlla, sono il tipico caso di “imprese senza piedi”; ossia iniziative imprenditoriali che non hanno nessun radicamento nel territorio. Sono semplicemente degli investimenti che atterrano o decollano a seconda della pura convenienza contingente. Nient’altro che la condizione tipica di un modo di produrre che s’impone per la volatilità del capitale al tempo della globalizzazione. Ed è inutile inveire. Semmai il problema per i territori e chi li governa è quello di ancorare tali imprese creando condizioni funzionali allo scopo e negoziando su quella base impegni meno labili.
La strada è quella della politica industriale e dell’investimento pubblico (alla faccia delle retoriche sul “privatismo” che in questi decenni hanno prodotto disastri e favorito la deindustrializzazione). Purtroppo si tratta di parole a rischio di avvizzire per le troppe volte in cui sono state pronunciate, per poi restare lettera morta.