Intervistando il Governatore di Bankitalia Visco, il giornalista de la Repubblica Massimo Giannini oggi scrive che «i focolai di tensione non mancano. Il primo si chiama spread.
Venerdì ha chiuso a quota 172 sui Bund tedeschi. Il rendimento dei Btp ha superato il 2%, soglia mai raggiunta da luglio 2015. La sensazione è che a far crescere il differenziale non sia tanto il “fattore Donald” (cioè la lezione americana di un “alieno” alla Casa Bianca), quanto il “fattore Matteo” (cioè il referendum sullo “young pop” di Palazzo Chigi). La conferma indiretta viene da un altro indicatore, in crescita già da prima del voto Usa: i Credit Default Swap, vale a dire le polizze assicurative che coprono dal rischio di default del “titolo sottostante”. I Cds sui Btp italiani sono saliti a quota 220 punti, contro i 123 della Spagna e i 42 della Germania. Il secondo focolaio si chiama “Target 2”, e registra il saldo tra le entrate e le uscite dei flussi finanziari nell’Eurozona. A settembre l’Italia è in rosso per 354 miliardi, quasi 135 miliardi in più del 2014. Il deflusso non si deve solo al fatto che gli investitori esteri comprano meno “bond tricolore” di quanti ne vendano (da agosto questo saldo per noi è negativo per 10 miliardi al mese). Ma anche al fatto che gli stessi operatori di casa nostra vendono più titoli di Stato italiani di quanti ne acquistino (saldo negativo di 31 miliardi per i fondi di investimento e di 15 miliardi per le famiglie), e che facciano l’esatto contrario con i titoli esteri (questo saldo è positivo di 31 miliardi solo per le nostre banche). Dunque, c’è una chiara tendenza alla fuga di capitali dal Belpaese. Visco ricorda che prima della recessione del 2008 il nostro debito pubblico era pari a 100 punti percentuali di Pil. Oggi siamo a 132-133 punti. “La grande crisi si è abbattuta su di noi come un treno, ma noi ci siamo fatti trovare impreparati”. E ricorda di aver detto già nel 2003 che “l’Italia era in declino”, e che dal ‘96/’97, con la moneta unica, o si fanno investimenti, o le imprese cambiano e aumenta la produttività, o il cambio reale può solo apprezzarsi, con effetti dirompenti sulla competitività. E così è stato, purtroppo».
Dato agli antemarcia del “declino italiano” l’atteso riconoscimento, ora ci si chiede se gli strumenti per affrontare tale situazione possano essere forniti dalle frotte di congiunturalisti, analisti finanziari e monetaristi che si affollano attorno al capezzale di quella che fu una grande nazione industriale. O se invece l’approccio corretto e realmente utile non sia quello della politica industriale; ossia la riflessione sulle scelte di specializzazione produttiva che potrebbero rilanciare i molti fattori competitivi ancora riscontrabili nel nostro tessuto economico. Annegati nelle alchimie contabili di chi presume di trovare la panacea nella finanza creativa e nei giochi borsistici.
Dunque, le ricette virtuali che hanno costruito castelli di carta e favorito operazioni truffaldine smascherate dal crollo di Wall Street del settembre 2011 (nonostante le successive operazioni cosmetiche, finalizzate al salvataggio con il pubblico denaro degli istituti di credito e altri illusionisti maldestri).
Il tempo in arrivo spazza via decenni di propaganda chimerica riportando sulla scena l’economia reale e le sue regole ben poco consolatorie. Per cui ci si arricchisce non con le trovate ma con il duro lavoro; sicché il successo nel business è strettamente legato alla capacità di proporre beni migliori per qualità e competitivi nel prezzo. Non prendendo la gente per il naso.
L’epoca di ritorno dei builders, i costruttori, non più dei riders, quelli delle scorribande “mordi e fuggi”. Bisognerà che anche la politica se ne renda conto, cambiando di cavallo: dagli imbonitori ai produttori.