I dati diffusi nei giorni scorsi dalla Banca d’Italia sul porto spezzino confermano questo articolo in due puntate: perché non sono per nulla rassicuranti. Il nostro è un porto in flessione,
con un calo importante in tutti i settori. Leggiamo su “Città della Spezia” di venerdì 11 novembre: “Nel primo semestre del 2016 il traffico mercantile complessivo presso i porti della Liguria ha registrato un decremento del 3.9 per cento rispetto al corrispondente periodo del 2015. Un calo che ha riguardato tutte le tipologie di merci (rinfuse liquide e solide e merci varie). Il calo spezzino – siamo su poco più di 7 milioni di tonnellate – è del 6.5 per cento, dati dell’Autorità Portuale. Il traffico mercantile della nostra provincia era già calato di 4.2 punti percentuali dal 2014 al 2015. La movimentazione di container negli scali liguri ha fatto segnare una nuova diminuzione (-3 per cento) dopo quella del semestre precedente. L’evoluzione negativa riflette l’andamento di Savona e La Spezia (-6 per cento, 625mila Teu da gennaio a giugno 2016), a fronte di una stazionarietà genovese. L’andamento del traffico di container in Liguria si pone in controtendenza rispetto all’incremento verificatosi presso i porti spagnoli del Mediterraneo (più 6.7 per cento) e alla stabilità dei principali porti del Nord Europa (più 0.4 per cento). Il numero dei passeggeri è rimasto stabile, e ha fatto registrare una crescita dei passeggeri sui traghetti che ha compensato il calo dei crocieristi, che nel primo semestre 2016, rispetto al medesimo intervallo 2015, alla Spezia sono calati di 27.5 punti percentuali. Mentre l’intero 2015 aveva visto un incremento del 38 per cento rispetto al 2014. Da gennaio a giugno 2016, come crocieristi, invece, Genova è cresciuta del 10 per cento. Calo del 4 per Savona”. In una città ormai disabituata a discutere sul futuro, questi dati rischiano di scorrere come acqua sul marmo. Invece bisogna farne tesoro. Così come non va archiviato l’atto di accusa della Corte dei Conti europea nei confronti della portualità europea e italiana, e anche dei porti del Tirreno, che ho citato nella parte finale dell’articolo di domenica scorsa. Questa, in estrema sintesi, la denuncia: “Non sono attesi significativi incrementi nei traffici negli anni a venire, serve un coordinamento per evitare opere e investimenti inutili”.
Tra le cose da non archiviare c’è anche il fallimento della settima compagnia marittima mondiale, la coreana Hanjin, specializzata nel traffico container. Gravata da 4,5 miliardi di dollari di debiti non è riuscita a convincere le banche a tenerla ancora in piedi. Una flotta di navi porta container con 14 miliardi di merci nelle stive è alla deriva. Perché è successo, perché doveva succedere? Leggiamo quanto scrive Sergio Bologna, uno degli analisti più lucidi in materia di porti e logistica: “Da anni le compagnie marittime viaggiano in perdita, hanno messo in servizio troppe navi, hanno continuato a ordinarle ai cantieri sempre più grandi, i cantieri si sono fatti concorrenza spietata e le hanno costruite, malgrado siano dei gioielli tecnologici, a prezzi stracciati, i noli sono andati a picco, i volumi crescevano ma il guadagno per unità di carico trasportata diminuiva. Poi la Cina ha rallentato l’export ed è arrivato il perfect storm. E adesso? Quante delle 10-15 compagnie che contano rimaste sul mercato sono dei zombie carrier? Così vengono chiamate quelle che stanno in piedi solo perché le banche decidono di non fallire… Si preferisce andare avanti, quasi sempre a spese della forza lavoro. E di riflesso si comportano alla stessa maniera i manager portuali, che in questi ultimi anni, con un mercato sempre più fuori controllo, hanno continuato a costruire porti sempre più grandi, in un delirio infrastrutturale favorito e incentivato dalle politiche insane dell’Unione europea. Solo di recente, nel 2015, si sono avvertiti i primi segnali di un ripensamento, si sono denunciati i rischi del gigantismo navale, si è messo il dito, in Europa, su porti costruiti ex novo e rimasti vuoti” (“Il Manifesto”, 20 settembre 2016).
In Liguria la questione è ormai chiara: nell’arco di pochi anni, se tutte le opere previste nei porti della regione verranno realizzate, esploderanno nuove conflittualità tra i terminal privati degli scali, ma anche all’interno del mondo del lavoro, perché a pagare le conseguenze di questo eccesso di offerta saranno i lavoratori. Giuseppe Danesi, Amministratore delegato del terminal Vte di Prà-Voltri, ha detto: “La conseguenza sulla portualità ligure sarà devastante… La colpa è di chi non ha capito niente di quello che stava accadendo… Se in trecento metri di strada apro cinque negozi di frutta e verdura, il primo campa, il secondo sopravvive e gli altri tre chiudono. Con tutti i riempimenti che stiamo realizzando in Liguria avremo una sovraccapacità enorme. E questo perché a un’offerta che raddoppierà risponderemo con una domanda sostanzialmente ferma” (“Repubblica Liguria”, 26 ottobre 2016).
Ancora: secondo uno studio di Fedespedi del 2015, il totale dei contenitori relativi al mercato domestico che vengono instradati attraverso i porti del Nord Europa è di 900.000 pezzi. E l’apertura del tunnel del Gottardo faciliterà questa deviazione dei container italiani verso il Nord Europa. Il Presidente degli spedizionieri genovesi Alessandro Pitto ha così commentato: “La concentrazione tra compagnie armatoriali e l’aumento delle dimensioni delle navi farà sì che sarà sempre più ridotto il numero dei porti. Si sceglieranno solo quelli che potranno mettere a disposizione spazi retrostanti adeguati” (“Repubblica Liguria”, 28 ottobre 2016).
Quindi i rischi sono enormi. Se ne può uscire solo in due modi: o rinunciando a parte dei progetti di sviluppo o allargando i propri mercati. Ma la seconda ipotesi presuppone che si realizzino le infrastrutture ferroviarie e i retroporti. Per il porto spezzino si pongono quindi domande chiave: “A che punto è il raddoppio della Ferrovia Pontremolese?” e “Quali sono le aree retroportuali, gli interporti e le piattaforme logistiche su cui puntare?”. E soprattutto: “Sono progetti realistici? Quali sono i loro tempi di attuazione?”
Giorgio Pagano