La recente assemblea genovese di Manageritalia ha presentato una fotografia degli assetti strategici e strutturali del nostro tessuto produttivo non propriamente esaltante:

le aziende liguri genericamente definibili “innovative” (anche se poi si dovrebbe chiarire meglio cosa si intenda con tale qualifica) sarebbero non più del 42,5 per cento, contro una media nazionale del 51,9; mentre i progetti di effettiva innovazione prodotto/processo si riscontrerebbero in non più del 27 per cento di loro, quando le percentuali italiane arrivano al 35,5.
D’altro canto basterebbe osservare come il sistema d’impresa della nostra area, a parte qualche grande industria residuale, sia quasi totalmente rappresentato da micro-aziende con minimali numeri di addetti. Una situazione che rende improponibile il classico approccio analitico della sociologia industriale americana alla Chandler, basato sul binomio strategia-struttura, e ci riporta rapidamente al modello della bottega artigiana proto-industriale. Coerente con l’assoluta prevalenza di logiche aziendale tra l’adattivo e la sopravvivenza.
Un restringimento dimensionale che diventa quantitativo e che chiarisce – tra l’altro – la ragione del calo di figure dirigenziali in Liguria, che negli ultimi tempi ha raggiunto la quota del meno 10,3 per cento; praticamente il doppio di quella registrata dal nostro sistema-Paese.
Insomma, la de-industrializzazione assume il profilo di una costante regressione al nanismo, tradotto nel presidio di interstizi economici, in cui gli appelli all’innovazione suonano terribilmente astratti. Tra l’utopismo e la poesia.
Ma siamo poi convinti che l’inversione di tendenza avvenga – come qualcuno vorrebbe credere – attraverso la managerializzazione di micro-imprese, con fatturati che rendono problematiche perfino le quadrature dei bilanci mensili? E figuriamoci se possono disporre di risorse tali da consentire l’inserimento, nei loro organigrammi ridotti all’osso, di figure professionali sovra-dimensionate rispetto al business. Per di più – come spiegava il celebre economista americano John Henneth Galbraith nel suo “Il nuovo stato industriale” (1968) – fisiologicamente portate, in quanto tecnostrutture di presidio, più a logiche gestionali e finanziarie che non a fungere da motori per processi di radicale rinnovamento competitivo.
Non a caso un profondo conoscitore del “caso italiano” come il professor Marco Vitale ha sempre sostenuto che il modello preferibile qui da noi è la “professional ownership”, la guida competente da parte di un nucleo di titolari professionalizzati. E questo dovrebbe valere particolarmente nella realtà ligure, in cui il familismo aziendale è – a dir poco – molto ricorrente.
Vada come vada, una riflessione da portare avanti. Visto che i dati forniti dall’associazione dei nostri manager segnalano carenze che richiedono di essere affrontare con adeguate politiche industriali a scartamento regionale.