Lunedì 5 settembre, nella sala dei Protettori di Palazzo San Giorgio l’intera port community genovese si è data appuntamento per il convegno dal titolo vagamente iettatorio di “Port Crash”;

non uno scontro di civiltà alla Samuel Huntington tra etnie, nel caso marittime (Crash of Civilisation on the sea?), bensì il pretesto per la presentazione di una ricerca sugli urti e le collisioni che avvengono nei nostri porti.
Ma anche un’occasione cerimoniale come questa può rivelarsi un’opportunità per registrare dati utili alla riflessione.
Inizia l’ammiraglio Giovanni Pettorino, padrone di casa pro tempore, facendo presente una solo apparente ovvietà: le navi odierne hanno assunto dimensioni sempre maggiori (i liners da crociera sono 100/120 metri più lunghi dei corrispondenti di fine Novecento; le porta-container attuali raggiungono i 400 metri di lunghezza e i 60 di larghezza, ossia il doppio di una diecina d’anni fa), mentre gli spazi e le aperture dei porti rimangono sempre invariate. Con i problemi indotti già dalla fisica, in particolare la legge dell’impenetrabilità dei corpi, che determina le sempre maggiori difficoltà nell’eseguire le manovre in acque protette.
Gli fa subito eco l’assessore regionale Edoardo Rixi, evidenziando il problema incombente su un settore marittimo che non sembra sempre esserne consapevole: se fino a oggi abbiamo assistito a una tendenza lineare verso il gigantismo navale, tale trend seguiterà in futuro, o già adesso sono percepibili inversioni di tendenza?
Del resto è questo il nodo in cui ci si imbatte ogni volta affrontando il tema delle grandi opere, che presuppongono tempi di realizzo tra i dieci e i quindici anni: all’epoca dell’entrata in funzione, quale sarà lo stato dell’arte della logistica e dei flussi a cui la realizzazione infrastrutturale è stata destinata, due o tre lustri prima?