Quando in Italia un’azienda partecipata dal pubblico entra nella spirale perversa “contrazione dei ricavi – aumenti dei costi”, anticamera del declino, non si passano ai raggi X
le logiche manageriali che hanno portato alla catastrofe, per individuare colli di bottiglia e progettare contromosse, bensì inizia la giaculatoria del mantra “privatizzazioni”. E, come ben sappiamo alla luce dell’esperienze pregresse (ma poi ce ne dimentichiamo), qui si entra in un’altra anticamera perversa: l’accaparramento speculativo. È stato così per la telefonia mobile, creando un oligopolio privato che taglieggia i tanto blanditi (a parole) utenti-clienti con le tariffe più care d’Europa.
Forse andrebbe ricordata anche la vicenda delle autostrade privatizzate.
Fino al 1999 due terzi della rete autostradale apparteneva allo Stato tramite l’IRI, il resto faceva capo alle Province e le tariffe delle concessioni servivano a ripagare gli investimenti compiuti in un’opera sostanzialmente conclusa negli anni 70.
Nel 1999-2000 avvenne la cessione ai privati a prezzo di svendita, considerando il mantenimento delle concessioni a fronte di investimenti poi avvenuti col contagocce.
Fatto sta che – come ha calcolato l’Istituto Bruno Leoni di Milano – gli acquirenti hanno fatto affaroni (già sei anni dopo Benetton si trovava quadruplicato il valore dell’investimento fatto e Gavio l’aveva moltiplicato per venti), anche grazie al taglieggiamento del sistema di tariffe tuttora in corso; elaborate con un parametro definibile “price cup all’italiana”: si tiene conto dell’inflazione, di obiettivi di efficienza, del traffico previsto e – incredibilmente – della qualità del servizio, con criteri tutti sbilanciati a favore dei concessionari e capacità nulle di rivalsa dello Stato persino in caso di inadempienze.
Ha bisogno di tutto questo la Liguria che reclama nuove infrastrutture di mobilità?