I problemi della portualità italiana non sono, a detta di molti osservatori, solo una questione organizzativa. Anzi il problema della governance sarebbe persino un falso problema, o perlomeno
un aspetto secondario sul cammino di una visione strategica del settore, se paragonato alla necessità di individuare specializzazioni e competenze di fronte alle distorsioni del mercato provocate dal fenomeno del gigantismo navale e dalla containerizzazione – quella che Sergio Bologna ha definito la “monocultura del container”. In questo senso buona parte degli operatori, dagli armatori agli agenti marittimi, sembra indicare che il problema sta nel cosa si fa, e che la sua declinazione organizzativa dovrebbe esserne la risultante e non l’inverso.
Sembra, pertanto, che dell’annunciata riforma si potranno vedere i frutti solo se essa avrà prima di tutto la capacità di realizzare seriamente l’integrazione tra strutture portuali e infrastrutture terrestri, in direzione dell’intermodalità. Oltre a ciò va preso atto che il conformismo produttivo e culturale rischia, soprattutto nel caso italiano, di far perdere specificità e competenze di questo settore che non necessariamente diventano obsolete con l’introduzione di nuove tecnologie e con l’aumento dei traffici, ma anzi possono costituire un decisivo elemento di valore aggiunto.